MAURO FELICORI – GRAZIA VERASANI
CANTIERE BOLOGNA
Aldo Balzanelli e Giampiero Moscato, insieme a Claudio Cumani (Qn-Il Resto del Carlino) intervistano Mauro Felicori
I DISCHI DELLA NOSTRA VITA
A cura di Pierfrancesco Pacoda, Fonoprint
PIATTAFORME, DATI E INTELLIGENZA ARTIFICIALE
R2B OnAir moderato da Luca De Biase con Mauro Felicori, prof. Luciano Floridi
I 50 ANNI DEL DAMS, IL ’77 E IL FUTURO OGGI SERVIREBBE UN’ALTRA SPALLATA
Corriere della Sera – Bologna 6 maggio 2021
Più volte, riflettendo sulla storia politica di Bologna in età repubblicana, mi sono trovato ad attribuire centralità, almeno simbolica, al DAMS. In questa storia c’è una frattura, quella del ’77, che non ha mai trovato una spiegazione convincente. Perché a Bologna? Perché con tanta potenza, a Bologna? Ma per gli aspetti creativi del movimento e il legame fra politica e l’arte?
Certo, c’è una spiegazione che aiuta: l’unità nazionale, la prima prova del compromesso storico, lascia a sinistra uno spazio enorme che l’estrema sinistra intende coprire per «rubare» alla sinistra storica il consenso popolare e portarlo dalla «lunga marcia» dentro le istituzioni alla tentazione insurrezionale. Tentativo non vittorioso, benché gravido di enormi conseguenze, sicché la delusione diventa frustrazione e questa provoca rabbia.
Le prime forme di disgregazione sociale urbana sono una base sociale disponibile alla rivolta ( ecco l’altra spiegazione, lo stereotipo delle «due società»). Posso persino dare un piccolo credito all’idea di un complotto: in fondo, Bologna, per il suo ruolo nell’immaginario europeo, è sempre stata campo di battaglia anche di provocatori.
Tutto vero, fin troppo, ma non basta a spiegare una frattura così forte nella città-vetrina della sinistra storica. Per quanto mi riguarda, ho sempre preferito immaginare il ’77 come la crisi di una città (con il suo sistema politico) troppo piccola per contenere una università tendenzialmente metropolitana come l’Alma Mater, un ateneo così grande da potersi permettere di generare un DAMS; il ’77 come parto doloroso di una post-Bologna.
Pier Luigi Cervellati, che peraltro del DAMS è stato docente, e che resta peraltro uno dei bolognesi più famosi nel mondo per il piano per il centro storico, proprio intorno al ’77 si pone lucidamente proprio questo problema. Ormai non lo ricorda più nessuno, ma è proprio in quegli anni che l’urbanista comunista propone di mettere un tetto all’espansione dell’ateneo (non ricordo se fosse 30mila o 40mila, ma poco importa a fronte dei 100mila che incombevano). Del resto Zangheri era diventato sindaco con la suggestione di «una città a misura d’uomo», frase deliziosa ma anche maliziosa, perché nascondeva il superamento del sogno di Giuseppe Dozza, la Bologna con un milione di abitanti, e della grandeur di Fanti, per cui il distretto della Fiera doveva essere il nuovo centro di una Bologna che raddoppiava a nord al di là della tangenziale; una megalofilia che viene sostituita da una politica ben più orientata ai servizi piuttosto che alle infrastrutture, da un orientamento al sociale, da una urbanistica moderata. Una scelta di cui abbiamo conosciuto le virtù e oggi vediamo tutti i limiti. Il DAMS guarda altrove, guarda più in là, non apprezza il senso della misura, chiede e reclama una città che non si vanta solo delle sue industrie del packaging, dei suoi motori, delle sue banche pingui ma esse stesse in conflitto fra ambizione e sottomissione. Reclama una città dove fioriscano il cinema, la televisione, l’editoria, il grande teatro, la musica. Una città creativa. Una metropoli che produce cultura e non si accontenta del pur notevole traguardo di essere sempre prima in Italia per i consumi culturali. Un approdo per gli artisti, non un luogo da cui andarsene.
La paura del grande non ci ha più abbandonato. E Bologna è ancora là, in bilico fra realismo e ambizione. Non può più essere una grande piccola città, non riesce ancora ad essere una piccola metropoli. Dobbiamo tornare ai grandi progetti: una volta, Bologna, prima di ridimensionarsi, sognava. Basta osservare San Petronio, con la facciata incompiuta, i portali ridimensionati, i moncherini dei bracci della croce ai lati. Per me, la grande metafora di una città che non sa essere né grande né piccola. E in questa dialettica fra sogno e realtà siamo pur andati avanti! Dobbiamo abbandonare la paura delle grandi trasformazioni, quella che ci ha paralizzato davanti alla nuova stazione, alla metropolitana, alla riprogettazione della tangenziale, gigantesca quando fu concepita, patetica oggi. Ci vuole un nuovo DAMS, per dare un’altra spallata al sistema. Sarà l’incontro fra gli ingegneri, i neuroscienziati e gli umanisti a fare da levatrice al mondo artificiale in cui siamo ormai immersi. Il mio augurio in occasione del suo mezzo secolo è che il DAMS confermi e rafforzi il suo ruolo di facoltà-monello, forever young.